L’articolo di Nicholas Tomeo “Uscire dall’alveo e ripartire dai territori locali” pubblicato sul numero scorso di Umanità Nova non ha trovato concordi i redattori, che hanno però comunque deciso di pubblicarlo in quanto, pur non ritrovandosi con le conclusioni o, perlomeno, con certi accenti di esse, hanno apprezzato la trattazione del problema in sé – il rapporto di un anarchic* con le istituzioni amministrative di un territorio nel quale agisce attivamente e di cui intende modificare le relazioni sociali locali in direzione dei propri ideali egualitari, comunitari ed autogestionari, riservandosi di intervenire successivamente nel merito della questione.
Inizio allora le danze. Tomeo[1] fa notare come l’attività sul territorio spesso porti la/il militante anarchic* a progettare modi di “meglio vivere” concreti su temi come la mobilità, l’assetto del territorio, l’inclusività della comunità e via discorrendo, la cui attuazione, in questa situazione data, è legata inevitabilmente ai poteri di un’amministrazione comunale. Di solito la situazione è conflittuale e le amministrazioni sono una pura controparte che bisogna, con la lotta sociale, forzare a fare qualcosa di buono: il problema che pone però Tomeo è come atteggiarsi di fronte ad un’amministrazione, diciamo così, “illuminata” che, rispetto a questi temi, si pone con atteggiamento collaborativo. Queste le conclusioni di Tomeo:
“Io credo che all’interno di territori locali, laddove ci siano le opportunità di collaborare con i Comuni per realizzare progetti che necessitano di interloquire con alcuni amministratori cittadini, queste opportunità vadano colte. (…) non possiamo credere di potere escludere a priori di collaborare con quegli amministratori locali lungimiranti che pure esistono e lavorano, in nome di una durezza e purezza libertaria e/o anarchica. Parlo di territori locali, e non di grandi sistemi, perché è proprio all’interno di questi spazi topici che si può cercare di costruire progetti non in contrasto con teorie libertarie e perché, inoltre, è proprio all’interno di questi territori che si possono comprendere appieno le istanze e i bisogni delle comunità e degli ambienti locali. L’idea, infatti, non dev’essere quella di entrare a prescindere in conflitto, ma quella di vivere il territorio (…) credo sia necessario abbandonare tutti quei dogmi di sedicente e apparente autenticità, integrità e verginità anarchica, per ripartire realmente dai territori locali cercando di inserirsi in quegli spazi dove è possibile farlo nel modo finora sostenuto, anche collaborando (ma non necessariamente tutte le volte non sia indispensabile) con le amministrazioni locali lungimiranti, al fine di vivere la città e non nella città perché le possibilità ci sono e vanno intuite e raccolte.”
Il problema nell’argomentazione di Tomeo risiede non tanto nella cosa in sé quanto nell’atteggiamento mentale che va, in un’ottica libertaria, sotteso ad esso e che non mi appare ritrovare nelle sue parole.
Partiamo dalla cosa in sé: un’amministrazione “illuminata” fa qualcosa di buono che, nell’ottica del “gradualismo rivoluzionario” malatestiano, va in direzione dei nostri principi e noi abbiamo la possibilità di dare il nostro contributo senza entrare in conflitto con tale amministrazione a prescindere. Beh, in realtà è una cosa che le anarchiche e gli anarchici, di qualunque tendenza, fanno continuamente. Prendiamo un caso concreto e che, tra l’altro, non implica di solito nemmeno un’amministrazione particolarmente “illuminata”: un gruppo occupa uno spazio abbandonato, lo rimette in sesto più che può e lo utilizza per attività sociali rivolte al territorio nell’ottica del “meglio vivere” egualitario e libertario, l’amministrazione lascia fare o addirittura, di fatto, si fa carico di elettricità, ecc. – una situazione direi molto consueta e non mi risulta che nessun gruppo occupante di spirito libertario, per quanto “hard”, sia mai andato a manifestare sotto il suddetto comune per chiedere di essere sgomberati, di pagare le bollette col carico degli arretrati, ecc.
Mi si dirà che questa non è “vera” collaborazione (dal punto di vista di determinate opposizioni comunali assai spesso però sì…): allora passiamo al caso napoletano, che conosco benissimo dato il fatto che è la mia città, dove il sindaco Luigi De Magistris[2] ha elevato a dignità di “beni comuni” – le cui attività dunque in qualche maniera sono state ufficialmente istituzionalizzate – numerosissimi spazi occupati, frequentati e spesso anche animati chi l’uno chi l’altro da libertari di ogni tendenza i quali non si sono mai sognati di chiedere la chiusura dell’esperienza. Come direbbe Toto’, anarchici sì, fessi (masochisti) no.
Potrei fare molti altri esempi, ma giungo al punto: la questione è tutta nel modo in cui si affrontano queste situazioni. Errico Malatesta a mio avviso aveva trovato la quadra: considerarli colpi di fortuna da sfruttare nella logica del “gradualismo rivoluzionario” ma, proprio per la loro rarità statistica, da non tematizzare politicamente: questo perché il rischio è, diversamente, entrare in un’ottica mentale per cui si cerca a prescindere non il conflitto bensì la collaborazione istituzionale, anche quando questa ci condurrebbe ben lontano dai nostri progetti iniziali.
Enrico Voccia
NOTE
[1] Escludo dalla mia argomentazione le tesi relative al discorso citato da Tomeo della Rete per l’Educazione Libertaria non perché concordi con esso – anzi – bensì perché, come dice lo stesso Tomeo, del tutto incidentale e pertanto ci porterebbe su strade molto diverse dagli intenti di questa risposta.
[2] Al momento attuale, con Mimmo Lucano destituito e con Sandro Pertini defunto, l’esempio per antonomasia dell’uomo politico “illuminato”. Tutti e tre i personaggi citati tra l’altro hanno dichiarato una qualche simpatia – ovviamente del tutto incoerente con la loro posizione istituzionale – per l’anarchismo: la palma della vittoria in questa paradossale classifica penso possa attribuirsi all’ex Presidente della Repubblica Sandro Pertini, il quale dichiarò in occasione della grazia concessa ad un partigiano anarchico di sapere che ad avere ragione erano gli anarchici, che lui non diventava tale per vigliaccheria intellettuale legata al suo ruolo di potere cui non sapeva rinunciare e che, comunque, si augurava che prima o poi vincessimo noi…